0.1
0.2
0.3
0.4 toroni (Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale, 1549; Ferrara).
0.5
0.6 torrone (1549, Cristoforo Messi Sbugo, Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale, GDLI; 1726, Annotazioni di A. M. Salvini sopra la Fiera di M. A. Buonarroti il giovane, TB; anche in Crusca V s.v. miele e mele; GRADIT, DISC, Zingarelli 2023).
0.7 Dallo spagnolo turròn, da turrar 'arrostire' (DELIN, ma cfr. infra).
0.8 Attestato dal XVI sec. fino alla fine del periodo coperto dal nostro corpus, a partire dai Banchetti di Cristoforo Messisbugo, torrone ricorre nel corpus AtLiTeG come dolce sia nella sua tradizionale forma, confezionata in stecche di diverse dimensioni, sia come base di varie preparazioni dolci (come il sorbetto o il gelato di torrone, entrambi attestati in area napoletana). La voce ha un'etimologia discussa. Miola 1940 riporta diverse ipotesi: dal latino turunda 'specie di focaccia sacra' (Caix), con una connessione col greco tyròs 'cacio' e coi verbi turare e turgeo 'crescere, gonfiarsi' (Solmsen); da torre, per la forma piramidale talvolta assunta dal dolce (Körting); dal latino torrere 'cuocere' (Palazzi). Secondo Miola, l'etimo più probabile è quello proposto da Cocchia, che ricollega l'uso del dolciume al culto di San Martino, vescovo di Tours, città capoluogo dei Turoni («il cibo, dedicato alla glorificazione del santo, avrebbe preso dalla sede episcopale di lui il nome di panis turonis o Turonensis», ibidem), ma Tours come etimo è smentito implicitamente da DI s.v. Tours.
Il vocabolo è in realtà probabilmente un ispanismo, da turron, a sua volta dal verbo turrar ‘arrostire’: spiega Prati 1946 che «i torroni spagnoli dovettero arrivare prima a Napoli, al tempo della signoria spagnola: la prima notizia riguardante codesto mandorlato in Italia è nel Lombardi (La Ciucceide XII 17, a. 1674), il quale parla di una tenna co na banca de terrone». La Ciucceide è in realtà del 1726; la prima attestazione napoletana sembra essere invece ne Lo Tasso napoletano, zoè la Gierosalemme libberata votata a llengua nosta, del 1689, dove si legge: «’Mausse è na cetà che sta llontana / da la matròbbele otto miglia bone; / comme da ccà ad Averza ha la via chiana, / e ha mmozzarelle, grano e affì terrone»; lo stesso autore spiega in nota che il terrone è «una sorta di cibo fatto con mandorle o nocciuole cotte con miele, ed ammassate insieme, se ne formano pezzi a guisa di verghe: si chiama da noi terrone, da quel tor tor, romore che fa in bocca masticandolo; nella nostra città di Aversa si lavora ottimo».
Come spiega DELIN, «l’ipotesi [[di Prati]] è tuttora sostenibile, anche se la presenza di torrone nel Messisbugo scalza la priorità napoletana, ma è sempre un testo non privo (tutt’altro) di ispanismi» (cfr. anche Catricalà 1982: 188).
0.9 Categorie
0.11 DEI; DELIN; GDLI; GRADIT; Nocentini; SC; TB; Zingarelli 2023; Catricalà 1982; DI; Miola 1940; Prati 1946.
Autore della scheda: Chiara Murru
Pubblicata il: 31/05/2024
Condizioni accesso: Open Access
Licenza di utilizzo: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/deed.it
Copyright: AtLiTeG
Doi: 10.35948/ATLITEG/vocabolario/349